[un capitolo del nuovo romanzo in lavorazione: il mese scorso.]
Mi levo dal letto dopo il suono della sveglia e improvvisamente atletico faccio dieci piegamenti sulle gambe, sciolgo i muscoli, dieci flessioni, sciolgo i muscoli. In bagno tolgo boxer e maglietta ed entro nella vasca per le consuete abluzioni, questa volta rapide, in piedi: lo specchio che riflette la mia immagine è appannato. Chiudo il rubinetto, faccio un respiro lungo aprendo per bene i polmoni. Inizio ad asciugarmi partendo dal viso, i capelli, il collo, il petto, le ascelle, la pancia e poi giù fino ai piedi. Lo specchio è ancora appannato. Accendo una sigaretta e indosso gli stessi abiti che avevo ieri e che Leyla ha trovato molto ben abbinati: un po’ stropicciato, ma elegante, mi ha detto. E così elegante e stropicciato mi convinco ad uscire per una passeggiata attraverso Les Puces. Avvio la registrazione della mia assenza ed esco. La giornata è fresca, il cielo limpido, poche automobili attraversano la strada. Mi fermo alla boulangerie per acquistare il mio pan au raisin. Davanti a me tre persone aspettano il loro turno, e io ho tutto il tempo di guardarla: come sorride a tutti indistintamente, la boulangère, e com’è gentile! Dietro di me arrivano altre persone… non saremo soli quando sarà il mio turno e non potrò chiederle il nome… né da dove viene, né gli anni. Non è alta e noto che i fianchi si allargano leggermente… ma quel viso e quella pelle liscia e quel sorriso ampio e i suoi occhi che brillano e i capelli che nasconde con un chador questa volta bianco… È il mio turno.
«Bonjour» mi dice.
«Bonjour» rispondo. «Un pan au raisin, merci.»
«Avec ceci?»
«C’est tout, merci.»
«Merci à vous et bonne journée!»
Mi sorride e mi fa pure l’occhiolino e io probabilmente divento rosso, borbotto una specie di bonne journée à vous aussi, e dietro di me il cliente successivo sta già ordinando la sua baguette e io non posso domandarle nulla: né l’origine, né gli anni, né il nome. Per me rimane ancora la boulangère dagli occhi nerissimi e dal sorriso ampio.
Una volta arrivato al bar di Maya, ordino il mio caffè al bancone e penso che prenderò la rue Voltaire fino a rue des Rosiers, dopo di che girerò a sinistra in direzione dell’avenue e di nuovo a sinistra dentro il marché fino a raggiungere le Restaurant Chez Louisette dove scatterò qualche fotografia per il giornale locale.
«Et voilà le caffè!»
«Merci Maya!»
Brasserie Biron, Le Godillot, La Prime, Le Moderne, Chez Louisette, Maya! Una foto al bancone dando le spalle all’entrata: è ciò che vede l’avventore. Una foto dal bancone verso l’entrata: è ciò che vede l’oste. Uno sgabello vuoto: tabouret! Apro l’agenda in data odierna e leggo quanto segue: finissage a partire dalle ore diciassette. Ho tutto il tempo di arrivare Chez Louisette, scattare le fotografie, ritornare a casa e allestire quantomeno la tavola con lo champagne e la frutta.
Bevo il caffè e ne ordino un altro.
«Maya, m’installo!»
«Pas de souci.»
Il tavolo di fronte a quello in cui mi accomodo è occupato da due donne tra i trenta e quarant’anni, le sento parlare, attirano la mia attenzione, le guardo, sono conciate maluccio, sembrano essersi appena alzate dal letto, i capelli di una raccolti con una pinza rosa mi sembrano sporchi, i capelli dell’altra sono corti e sembrano puliti, mi concentro su quest’ultima, ha gli occhi chiari, ma da qui non riconosco il colore, le labbra sono carnose, il naso leggermente all’insù, senza trucco, le mani le muove veloce, sembrano ben curate, le dita lunghe, le unghie smaltate di rosso, nemmeno un anello al dito, incrocia il mio sguardo, abbozzo un sorriso, lei ricambia, poi arriva il caffè: grazie Maya! Rivolgo lo sguardo verso il bancone, lo sgabello vuoto è colpito da un fascio luminoso che entra dalla porta principale: il fenomeno si ripete: tabouret!
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