Volevo andare a vivere con mio padre, come Sergio: «Facciamo un po’ e un po’» dissi a mia madre, «una settimana con te e una settimana con papà.» Ma lei, ogni volta che sentiva quel nome, mi rispondeva sempre brusca e sempre allo stesso modo: «A noi non interessa di quello che fa Sergio!»
Ricordo che una volta l’ha pure buttato fuori di casa, al mio amico Sergio. «Sono le tre di notte, disgraziato! Ma ti sembra questa l’ora di rientrare?» Non ho manco fatto in tempo a dirle che Sergio dormiva da noi. E lui non ha fatto a tempo manco a fare il secondo passo dentro casa. «Vai fuori» gli ha urlato mia madre, «fuori da casa mia.» Io ho pure tentato di mettermi in mezzo, ma Sergio era già sulla seconda rampa di scale. Allora sono corso alla finestra, abitavamo al terzo piano, e quando l’ho visto sbucare sulla strada l’ho chiamato: «Oooh, Sergiooo, scusami. Ci vediamo domani!?» Ma lui non si è girato nemmeno, ha solo alzato il braccio per salutarmi, prima di scomparire dalla mia vista. Quel giorno si è rotto qualcosa fra di noi. Avevamo diciassette anni.
Sergio è stato il mio migliore amico delle scuole medie, sempre assieme, di mattina e di sera, d’inverno e d’estate. Indossava le marche del momento, le scarpe Adidas firmate da Ivan Lendl e le magliette a maniche corte dei Boston Celtics con il marchio NBA. In camera aveva un poster di due metri di Larry Bird che tira a canestro, troppo bello, enorme; io ripetevo quello che diceva lui e alla fine anche per me Robert Parish, Kevin McHale e Larry Bird erano indubbiamente la migliore linea di lunghi di tutti i tempi: «Quelli dei Lakers hanno solo il gancio cielo di Jabbar.» Mi aveva portato sulla sponda biancoverde dei Boston ed io l’avevo portato sulla sponda giallorossa della Roma. Uno scambio di rassicurazioni sportive, il nostro culto quotidiano. Io però volevo essere come lui in tutto e per tutto. E quindi volevo stare un po’ con mio padre e un po’ con mia madre, come faceva Sergio, perché fin da quando i miei genitori avevano divorziato io ero stato sempre con mia madre. Solo la domenica andavo con mio padre: a me e mia sorella veniva a prenderci alle nove in punto, suonava due volte il citofono e noi scendevamo. Ci accompagnava in chiesa e poi veniva a riprenderci. Mi comprava ogni domenica dieci pacchetti di figurine Panini, le caramelle gommose e il Corriere dello Sport; però me li dava sempre dopo la messa. Volevo essere come Sergio quindi, e in seconda media finalmente ci riesco: «Facciamo così: vai a stare due mesi da papà e poi torni due mesi qua. E poi di nuovo da tuo padre per altri due mesi.» Erano pure andati dal giudice per decidere ‘sta cosa. Mia sorella invece non ne aveva voluto sapere. «Io sto bene così» aveva detto. Ed era rimasta con mia madre.
Finalmente da mio padre, ero veramente felice, mi sentivo uguale a Sergio. Finalmente potevo tornare a piedi da scuola insieme a lui, perché mio padre e suo padre abitavano vicini, e quando stavo da mia madre veniva a prendermi lei in macchina, ogni giorno. Avevo pure le chiavi di casa, come Sergio, e quando sulla porta lo salutavo, le mettevo in bella mostra per far vedere che ero proprio uguale a lui. Ma poi, quando entravo dentro, la casa di mio padre non era proprio uguale a quella di suo padre. Da me c’era solamente il salotto e una cucina tirata su alla meglio. Non avevo nemmeno una camera tutta per me e i vestiti li tenevo in una valigia. E a Sergio non lo facevo mai entrare perché mi vergognavo. E poi era buia e silente la casa di mio padre, quasi morta. Mi faceva compagnia una radio Sanyo che mi avevano regalato per Natale; ci mettevo dentro una cassetta di De Gregori – Rimmel – e l’ascoltavo tutto il giorno, anche quando facevo i compiti. Mio padre tornava due ore per il pranzo, portava ogni giorno il pollo già pronto comprato in rosticceria, e un po’ di patatine fritte. Il frigo era sempre vuoto, e la dispensa – che a casa di mia madre era sempre piena di biscotti, merendine e cioccolati – pure quella era sempre vuota, si formava anche la polvere. Però ero uguale a Sergio e questo mi doveva bastare!
Il primo mese della mia nuova vita era trascorso così: ogni tanto le figurine e le caramelle gommose, le chiavi di casa sempre in bella vista, lunghissime chiacchierate con Sergio mentre tornavamo da scuola, il pollo e le patatine a pranzo, Rimmel nel mangianastri e mia madre la domenica che mi stirava i panni e mi preparava la valigia.
Il secondo mese della mia nuova vita inizia col botto. Con Sergio non ci vedevamo da un po’ perché lui era andato a fare la settimana bianca da qualche parte in Trentino, e quindi dovevamo recuperare il tempo perduto. Suonare i campanelli e scappare non ci bastava più. E nemmeno coprire d’insulti chi rispondeva al citofono. Anche gli scherzi telefonici da casa sua cominciavano ad annoiarci. Dovevamo alzare il tiro. Un giorno, sulla via del ritorno da scuola, raccolgo un chiodo dall’asfalto senza un particolare motivo, e in questa strada stretta, poco prima del Bar Mariuccia dove compravamo i gelati, mi fermo davanti a un’Audi 80 blu, nuovissima, pareva uscita la mattina dalla fabbrica, e con il chiodo inizio a scrivere Forza Roma nella portiera dell’auto. «Ma che fai?» mi dice Sergio. «Zitto» gli rispondo, «tu guarda che non s’affacci nessuno.» Finita l’opera continuiamo a camminare guardandoci intorno: manco anima viva.
«Tieni, ora tocca a te.» E lui si ferma davanti a una Fiat Panda rossa e scrive Lakers merda. E io faccio il palo: manco anima viva.
Ci mettiamo a correre eccitatissimi, buttiamo il chiodo lungo la strada e ci fermiamo da Mariuccia a prendere due gelati. Panna e cioccolato per me, solo cioccolato per Sergio. Ma appena fuori, dopo la prima leccata, una ragazza bionda e un po’ cicciotta si fa davanti a noi: «Vi ho visto, siete stati voi.» E ci attacca al muro: «State fermi sennò chiamo la Polizia.» La Fiat Panda rossa si piazza proprio davanti a noi, che siamo immobili uno accanto all’altro: «Papà sono stati loro, li ho visti io.» E a noi non ci esce manco una parola, siamo fermi pietrificati e il gelato comincia a gocciolare sulle nostre mani.
«Adesso ci dite dove abitate» fa il padre della bionda. Glielo diciamo dove abitiamo, immediatamente e senza mentire, e sottolineiamo pure che a quest’ora non c’è nessuno in casa, né mio padre né suo padre. «Va bene, non c’è problema, aspetteremo fuori.»
In macchina il padre della bionda ci chiede chi siano i nostri genitori e quando Sergio glielo dice, quello si sistema dritto sul sedile e lo guarda dallo specchietto: «Ah, sei il figlio di Nanni…» Quando invece glielo dico io non dice nulla e continua a guidare.
Aspettiamo dentro la macchina con le mani sporche di gelato e quando sento la Renault 5 di mio padre parcheggiarsi dietro di noi m’irrigidisco. Scendiamo tutti assieme e tutti assieme ci sistemiamo davanti alla scritta Lakers merda.
«La porti da Tuppone» dice mio padre al signore «il carrozziere che c’è due strade più avanti. Passerò io a pagare.» Poi si rivolge a Sergio invitandolo a rientrare a casa sua, di non preoccuparsi di nulla. Ci avviamo verso il portoncino d’ingresso: io non parlo e lui nemmeno. Sistemo la cartella in cucina, sopra una sedia, mi lavo le mani e mi accomodo silente al mio posto a tavola intanto che mio padre taglia il pollo in quattro parti e sistema le patatine fritte in un vassoio. Apre la sua birra, mangia e beve. Senza dire una parola. Senza nemmeno guardarmi in faccia. Alle tre sta uscendo nuovamente per tornare al suo lavoro. Io comincio a girare per la casa, non metto nemmeno la cassetta di De Gregori, mi sento solo e vorrei mia madre. Mi manca. Penso a Sergio e credo che alla fine non siamo poi così uguali.
Quella stessa notte, appena mio padre ha spento la luce, mi sono girato verso il muro e gli ho detto: «Posso tornare a casa di mamma prima che scadano i due mesi?»
«Sì» mi ha risposto, senza aggiungere altro.
La domenica poi, quando è venuto a prendere me e mia sorella dopo la messa, mi ha dato dieci pacchetti di figurine Panini, le caramelle gommose e il Corriere dello Sport.
Ma a vivere con lui non ci sono più andato.
(originariamente apparso sulla rivista Toilet n. 11/2007)
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