Faubourg Saint-Martin, 75010

Luis Guitierrez è nato a Tangeri, una città internazionale dove si parla arabo, francese, spagnolo. Si è trasferito a Parigi dopo la rivoluzione del ’65, a ventinove anni. Ha lavorato come muratore per comprarsi una casa nel 10e, e dopo questa se n’è comprata un’altra, in un piccolo villaggio del sud. Ogni giorno, alle otto in punto, Luis si presenta al 57 di Rue du Faubourg St. Martin, digita il codice d’ingresso, sale le scale dell’immobile fino al secondo piano e mezzo e sul tavolo della cucina sistema pane e fiori per la mia madama – che non manchino il pane né i fiori.
L’appartamento del secondo piano era quasi tutto inutilizzabile prima che arrivasse Luis, prima di questa primavera in cui Luis ha convinto la Madame a liberare nuove stanze da affittare. In questo appartamento – destinato al figlio, ama dire Maryse – prima che ci mettesse mano quest’omino tuttonervi c’erano tre camere su cinque di buste riempite di quello che lei raccoglieva dalla strada. Dice Luis che c’era lo spazio soltanto per aprire la porta d’ingresso, e poi buste su buste di tutto fino al soffitto. M.me Colombo, da trent’anni, apriva questa stanza in cui dormo soltanto per aggiungervi altre buste. Questa stanza che potrò abitare altre due settimane. E il prezzo sarà lo stesso, mi ha detto Maryse, di meno non è possibile.

*

Scendo le scale in direzione della boulangerie per comprare tre religieuses e una baguette ai cereali; poi raggiungerò la Madame e Luis per il nostro promesso pranzo.
Luis ha preparato una omelette di funghi. E intanto che la serve in ognuno dei tre piatti in tavola mi dice che l’omelette è fatta di uova, cipolla e patate; basta! Che oggi lui ci ha messo anche i funghi, ma di solito i funghi non ci vanno. Io poso il pane e i dolci sul tavolo e mi siedo al mio posto, spalle alla porta d’ingresso della cucina del secondo piano e mezzo. La Madame assolve l’invadenza del mio dono dolciario con un rapido sguardo di gratitudine, e tagliando a pezzettini la sua porzione di omelette se ne esce con un bon appétit sottovoce. Sulla tavola ci sono soltanto due bicchieri, il mio e quello di Luis che si abbassa sulla bottiglia di vino sistemata ai suoi piedi, la agguanta sorridente e li riempie entrambi, prima il mio e poi il suo. Mi domando come mai la mia Madame sia sprovvista di bicchiere e mi alzo, ma questa mi blocca dicendo che lei non beve. Poi strappa forte coi denti il suo pezzo di pane prima di tuffarlo nel ragù, contorno all’omelette.
Chiedo a Luis come si chiami l’indiano che abita al secondo piano assieme a me, l’autista, quello di cui abbiamo parlato l’altra notte; quello che dorme da Maryse senza pagare da sette anni; che dorme, si fa la barba, esce per andare a lavorare e la doccia la prende dentro un hotel vicino a Place d’Italie. Imad, si chiama così l’indiano con cui abito. Ma non lo diresti indiano. Nel suo sangue c’è un capitano della Marina inglese, non particolarmente alto, né particolarmente bello. Penso: se si è mantenuto bene potrebbe essere ancora vivo, il padre di Imad. A tavola ripetiamo il buongiorno ritardato di Imad, e ridiamo forte: io, Luis e Madame, che smette per prima di ridere e sopisce le nostre smodate gioie: Imad doveva essere superato da un altro dire, era lei a guidare il discorso. E chissà se poi è soltanto una questione di popolo, o di vita, o di quella che voi chiamate morte: Imad che non muore quando si fa la doccia in un hotel, tutti i giorni; Imad che non vive dentro a quel berretto di lana né dentro il cambio dei vestiti che porta con sé dentro una busta di plastica. E chissà a quale popolo appartiene, Imad, che mi parla un inglese da perfetto scolaro.

*

L’incontro fra Luis Guitierrez e M.me Colombo, quest’ultima me lo racconta piena di sorrisi una notte che nella casa del secondo piano e mezzo ci siamo soltanto io e lei. La giornata non ha concesso che pioggia e freddo. E quando sembra che dorma tutto l’immobile io scendo le scale fino alla corte d’ingresso per buttare la mia immondizia; poi risalgo fino al secondo piano e mezzo per cucinarmi un uovo e aprire un’altra bottiglia di vino. In cucina c’è la madama che lava i piatti con la radio accesa. Mi chiede se sto lavorando e le rispondo di sì; si sciacqua le mani e mi sembra soddisfatta della risposta, le asciuga, spegne la radio e mi chiede, sedendosi, se ho trovato una stanza. Le dico che un amico probabilmente mi ospiterà per qualche tempo, che potrei dormire, in effetti, anche nello studio interrato che c’è a Saint-Ouen, da Jailoo. Mi pare tranquillizzata nel sapermi corredato di paracaduti per quando cadrò in strada, e mi dice che finalmente è sola e finalmente ha tempo per i suoi pensieri e solo per quelli, che Luis l’aiuta tanto – è il suo miracolo di primavera – ma non era più abituata alla presenza di un uomo accanto. Sono passati più di venticinque anni da quando il marito se n’è andato lasciando alla sola Maryse e ai suoi figli il lavoro del ricordo da conservare. Mi dice di aver incontrato l’ex marito durante il matrimonio del figlio, a Padova, in Italia, e di averlo trovato grasso, orribile. Mi ha disgustato. E non riuscivo a mangiare. Avete visto il fisico di Luis? mi chiede la Madame. Ha settantadue anni, ma un corpo invidiabile, asciutto, e ancora muscoloso. Luis ha da qualche mese cambiato la mia vita. Vi ho già raccontato come ci siamo incontrati? No? Ah, è una storia molto molto romantica. E inizia due mesi fa, alla fine dell’estate, una mattina che vedo Madame Pierette raggiungermi in strada con passi svelti, la mano a coprirle il viso e gli occhi a guardarsi attorno. Mi dice che Luis Guitierrez le ha detto di riferirmi che sono molto bella. Io rimango interdetta e rispondo a Madame Pierette che non frequento uomini sposati, di rispondergli così, a Monsieur Guitierrez. Désolé. Il giorno appresso, tra Faubourg Saint-Martin e Rue de Chateau d’Eau di nuovo Madame Pierette che mi si fa incontro, dice che mi aspettava, che ha portato la mia comunicazione a Monsieur Guitierrez, il quale ha risposto che avrebbe lasciato sua moglie per me. Oh, quel malheur! Ha detto proprio così, Luis: Dite a Madame Colombo che lascerei mia moglie per essere da lei accolto. Allora, quando M.me Pierette mi dice questo io non so se chiederle se Luis Guitierrez sia diventato matto o cosa… Le dico che risponderò nel pomeriggio, e torno verso casa. E penso a tutti quegli amori che sono diventati una o due lettere l’anno, quelli che leggono le mie lettere e si sforzano di rispondere nella mia stessa lingua, tutti questi sono di colpo schiacciati dalla forza di un ometto spagnolo di nome Luis, che dice a M.me Pierette di essere disposto a lasciare la moglie dopo quasi quarant’anni di matrimonio!

*

Ora che anche la stanza di mezzo è stata sgomberata il viavai è quotidiano e capita di sentire vicino l’amore degli altri. La Madame la chiama la stanza degli innamorati, e sono quasi sempre amici degli stessi inquilini che abitano queste case. Un pomeriggio di qualche giorno fa, di ritorno dal mio pranzo al piano di sopra e diretto in camera, ho visto la stanza centrale per la prima volta aperta e la Madame dentro a trafficarci con lenzuola nuove: per gli amorosi, ha detto. Le ho chiesto se potessi aiutarla. E mi ha detto di sì. (Di solito mi dice di no.) La stanza inutilizzata da quasi trent’anni che Madame riempiva di bustoni di ricordi ha un caminetto subito a destra dopo l’ingresso, il soffitto di stucchi semplici ancora in attesa dei colori di un pittore, due finestre che danno sul mio stesso balcone, il letto matrimoniale con la spalliera sul muro che ci separa dalla mia stanza, un armadio con lo specchio nella parte interna di entrambe le ante. E infine, posizionati molto in alto, ci sono tre machete che Luis non ha potuto rimuovere e dei quali non si può discutere.
La Madame adagia il lenzuolo sul letto stringendone un’estremità; ne prendo un angolo e sollevo il materasso per incastrarlo sotto; quando mi alzo so cosa devo chiederle: i machete. Indico soltanto col dito e lei già mi guarda interrogata in attesa della mia domanda.
Sono machete?
Sì, mi risponde lei tornando sul lenzuolo. Non mi piacciono, mi dice. Ma non posso toglierli. Questa è la casa per mio figlio. E deciderà lui.
Penso che fino all’arrivo di Luis era così per tutto: deciderà mio figlio; intanto accumulo, qualcosa servirà qualcuno.
Per gli innamorati, mi dice Madame. Un buon letto per gli innamorati.
I francesi non amano il silenzio. O quantomeno i francesi che frequento. Sono sempre molto loquaci, e se non mi stufo di tutto questo parlarsi addosso è perché spesso non capisco. Mi assento. In questo modo mi resta del tempo per riposar l’attenzione. E pensare a me.
Maryse mi dice che gli innamorati sono una coppia indiana, che sono amici di Kartik, l’ingegnere del primo piano.

Nella prima stanza di fronte alla porta d’ingresso – la stanza che Madame Colombo e Luis chiamano la biblioteca – si è installato un professore di architettura del Politecnico di Milano. Faccio la sua conoscenza sulle scale dell’immobile, e la madama mi presenta come un ingegnere che scrive. Continua dicendogli che sto scrivendo una guida sui passages parigini; poi si rivolge a entrambi e dice di parlare in italiano fra di noi, che le piace il suono della nostra lingua. Dico subito al professore che non sono italiano, anche se scrivo in italiano. È sorpreso, il suo sguardo ironico aspetta che giustifichi quanto appena detto. Gli dico che sono sardo, che non sono italiano. Lui mi risponde che comprende, ma non chiede altro, non curiosa la mia vita politica. Mi domanda invece dei passages, e mi dice che un suo collega è un grande esperto, lo vedrà più tardi a una conferenza. E prima di congedarsi mi dice luogo e ora dell’incontro, che avrà piacere di vedermi. Ringrazio e prometto che sarò lì alle 17H, puntuale per il suo intervento.
Invece sono le 18H, ora, il suo intervento è quasi alla fine e io sono qui: affacciato al balcone vedo i due amorosi uscire dal portone di sotto, abbracciati stretti ridono forte mischiando le loro voci ai rumori delle macchine; percorrono Rue du Fauborug Saint-Martin verso Gare de l’Est, prima di svoltare a sinistra in Rue de Chateau d’eau, la via dei parrucchieri negri, dove mucchi di capelli volteggiano per strada in attesa che a sera passino a pulire quelli della Mairie.

Dedicare le mie giornate ai passages parigini significa non dimenticare la strada e come essa si trasforma. Le gallerie coperte sono state negli anni anche passaggio comodo che collegava un quartiere a un altro. Se pensiamo al passage des Panoramas, che oltre il boulevard continua a passeggiare chiamandosi Jouffrey e oltre Rue de la Grange-Betalière prende il nome di Passage Verdeau, quando pioveva e la strada di fango era perfino comodo arrivare sotto Montmartre quasi asciutti.
Accanto al museo Grévin, il passage Jouffroy è il primo passage costruito in ferro e vetro, nel 1846, su pavimentazione d’origine. Questi racchiude un tesoro insolito: boutique di giochi e case di bambole antiche, librerie specializzate in cinema e teatro, così come il romanzesco Hotel Chopin, che data la costruzione del passage stesso. Il conte Muffat e il banchiere Steiner, amanti celebri di Nanà, avrebbero senza dubbio apprezzato, al numero 34, l’incredibile boutique di antichi bastoni da passeggio di Monsiuer Segas.
Dopo essersi prostituita per scampare la miseria e crescere i figli, Nana è ingaggiata al Theatre du Variétés, più per il suo ancheggiare che attira tutti gli uomini che per il suo talento. Il passage des Panoramas c’est Nana!

Tutti a spingere il proprio carrello della vita, nell’esecuzione quotidiana di un sopravviversi. Affacciato al balcone su Faubourg Saint-Martin penso a come sarà la mia vecchiaia; a dove sarà. Di sotto un uomo cammina con una busta in mano, barcolla, si guarda intorno, alza lo sguardo verso il balcone e mi saluta sollevando un braccio; io non rispondo nemmeno, sono troppo concentrato sulla distanza. Non sento più niente, ormai. Non guardo nemmeno più. Il mio rimuovere è patologico. Rimuovo per ricordare meglio. Un camion si ferma e scarica un divano accanto a una catasta di cassetti. Io spengo la sigaretta e torno in camera, da lei.

*

Il rapporto tra Madame Colombo e Luis è cambiato da qualche giorno a questa parte. Ieri Maryse gli ha perfino interdetto l’ingresso in camera. A me ha detto che non è un rapporto d’amore, che lui profitta di lei come lei di lui: Luis ha bisogno della Madame per trascorrere il suo tempo lontano dalla moglie basca che dopo una vita assieme ha deciso di insultarlo per chissà quale sgarbo. Luis ha bisogno di una casa entro cui riparare, ha bisogno di lavorare per non pensarci, di dipingere le nuove stanze di Maryse Colombo, di condividere con lei ogni minuto per dimenticarsi che a sera, nella sua casa, la moglie basca gli rivolgerà soltanto sguardi d’odio e parole sgradevoli – che Luis Guitierrez non crede di meritare.
Ma il miracolo sembra essersi esaurito: la Madame mi ha detto che non sa di cosa parlare, con Luis, che non ha mai guardato così tanto la televisione; che preferisce leggere, o ripassare i suoi ricordi raccolti per strada. Mi ha detto che ha smesso di raccogliere in strada a causa di Luis, e che questo non la fa stare bene.
Ho sempre tanto a cui pensare, mi dice Maryse. Le case dell’immobile, gli appartamenti del secondo e del quinto arrondissement, i miei nipoti, i miei figli, e tutti i miei affari sparsi. Non mi ritrovo più niente da quando c’è Luis. Per lui tutto è da buttare. Per me, no. E non ho più il mio tavolo da lavoro!
E me lo indica, nella cucina del secondo piano, sommerso di buste che arrivano fino alla porta.
È la prima cosa che vorrei fare da troppi giorni: liberare mon bureau! E ogni giorno, invece, per Luis c’è un’altra priorità. La sua. Domani gli dirò che non ho più bisogno di lui.
E così, il giorno dopo, non vedo Luis né nell’appartamento dove dormo, né nella cucina del secondo piano e mezzo, dove una baguette e dei fiori mi suggeriscono il suo ultimo passaggio.
Incrocio la Madame sulle scale, ma non le chiedo nulla.

Dalle persone prendiamo quanto ci occorre, caldamente distanti ma ugualmente stretti fino allo schianto. Un giorno, durante la vecchiaia, dovrà disgustarmi tutta questa agitazione senza capricci. Fatalità senza splendore, ha detto Cioran della vita. Un male senza attrattive a cui partecipiamo senza gloria. Luis non entra più in questo immobile da due giorni, e io ci patisco. Maryse dice che si è portato via dei libri costosi che teneva sottochiave; dice che un giorno gli ha trovato un suo coltello dentro la tasca; dice che i soldi non le interessano, ma gli oggetti sì.

Esco in strada, cammino verso la Senna e incrocio Luis, con la sua immancabile baguette in mano. Mi sorride, mi chiede come sto, ma non mi chiede come sta la Madame. Mi dice, invece, che Maryse è pazza, che fruga nell’immondizia, che dalle stanze affittate raccoglie tremila euro al mese che non dichiara allo stato francese.
E tutti questi soldi li tiene nella cassaforte di camera sua. E non ha nemmeno un conto in banca, conclude Luis sottovoce. Mi dice bonne chance e mi stringe la mano. È felice, Luis.
Ah, mon ami italien! Vive l’Italie!
Luis, je ne suis pas italien, je suis sarde!
Ah, c’est vrai, la Sardaigne. Bonne chance, Emile!
Merci bien, Luis. Et à bientôt!

*

Sapevo che il giorno dopo non sarebbe tornata, notavo come raccoglieva i suoi affari, avvertivo la sua ricerca ultima, la ricapitolazione. La vedevo chiudersi, allontanarsi. E dovevo seguirla.
A sedici anni ero un fiore, mi ha detto Alma. Eravamo seduti nella piazzetta tra Cité Champagne e Rue de Buzenval, parlavamo di quanto era stato nelle rispettive vite. E di cosa sarebbe stato da quel momento in poi. Le sue mani si muovevano sicure quando parlava. Ma quando non parlava, quando mi ascoltava, quelle mani si posavano a reggersi su di me, come a cercarne un senso sulla carne, un verso di percorrenza. E chissà cos’hai sentito quando ti ho risposto che a sedici anni, secondo me, ti avevo vista. Le tue mani si irrigidirono e i tuoi sedici anni finirono lì, annacquati da quella luce che raccoglieva i nostri occhi a una nuova attenzione, a un nuovo ascolto, alla voce dell’uno o dell’altro.
Era bello in quei giorni, ma oggi c’è troppo caldo per mettersi a pensare al cavallo che chiedesti in regalo a tuo padre quando tutti i tuoi coetanei chiedevano in regalo un motorino. E tuo padre te lo comprò, il cavallo. Avevi il tuo cavallo da strigliare e accudire ogni due giorni. Durò nove mesi fra le tue mani. Poi lo vendesti a novecento euro e tuo padre non seppe se rallegrarsi della tua intraprendenza o sgridarti; quel cavallo era tuo, e potevi anche venderlo, in effetti.

Sono sdraiato sul letto e guardo il mio tavolo da lavoro vuoto di me. Mi fa paura perfino avvicinarmici, e non mi siedo perché sentirei i tuoi occhi dietro. Domani andrà meglio è un ideale che ho sempre mal sopportato. Domani andrò via, invece. Lascerò una lettera per la mia Madame e andrò via.
E da qualche parte dormirò.
E da qualche parte andrà meglio.

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