La Sardegna pesante

Non attuerò nei suoi confronti nessuna forma di vendetta violenta: non gli sparerò una scarica di pallettoni in faccia, così come non gli taglierò la lingua né gli caverò gli occhi. Un superiore dovere morale mi consiglia di lasciarlo in vita, il nostro Tancrede, e di sollecitare in qualche modo la sua paura della morte: me lo figuro piangente, cagato e pisciato! Ogni offesa recatami dovrà essere restituita per mano mia; o da altri, se l’offesa in oggetto ha arrecato danno anche ad altri.
Il mio codice recita così: La vendetta deve essere eseguita solo allorché si è conseguita oltre ogni dubbio possibile la certezza circa l’esistenza della responsabilità a titolo di dolo da parte dell’agente.
E una volta che porterò al nostro tavolo tutte queste certezze, caro Tancrede, ti confesserò che la mia vendetta sarà proporzionata, prudente o progressiva. Ti chiederò, in uno slancio partecipativo se hai delle preferenze. Tu sei a testa in giù, le gambe divaricate e le braccia larghe sono legate a due alberi. Il tuo corpo così appeso dovrà rassomigliare a quello di un grosso bue lì lì per essere cucinato col fuoco vivo…
Hai smesso perfino di parlare.
Conosci quel quadro di Rembrandt? Sta al Louvre.

Un popolo è la sua narrazione, la sua oralità, il suo disegno: la perfezione di un nuraghe non abbisogna di essere scritta sulla carta – basta guardarla, ça suffit! La Sardegna mi appesantisce soltanto quando ci dormo, vista da qui mi sembra fin troppo leggera, e smarrisco le urgenze di guerra tra un’anisette e la seconda birra. Al bar ridivento un essere sociale, mi adatto nell’attesa di parlare a voce alta. Siamo stati decimati e abbiamo già smesso di figliare: le strade si prendono la carne che gli arriva in scatola, l’automobile si accartoccia dopo lo schianto e ci regala una notizia per il giornale che verrà domani. Lo apriremo in tanti sulla stessa pagina, e da lì in poi saremo più informati, si dice.

In Sardegna, un giorno di maggio, si può morire a 19 anni, in attesa del bus per andare a scuola.
Da qui, lontano come sono, l’odore del sangue e il caldo dell’arma si fondono dentro una disputa millenaria, ancestrale, nella quale la vita è regolata da codici non scritti, consuetudini giuridiche che rimandano a un determinato territorio della Sardegna. Ecco la prima esclusione, la prima parcellizzazione in questo discorso di isolamento. La geografia parlante è un’isola all’interno di un’altra isola: il mare è un mezzo d’isolamento geografico, come un fiume o una montagna. La geografia caratterizza la cultura, e in Sardegna sono ben identificabili i confini entro i quali la giustizia e l’onore non sono affari dello Stato italiano.
Gli hanno sparato in faccia? Cosa significa questo? Altri codici, altre interpretazioni. Hanno reso irriconoscibile il suo viso, quanti colpi sono stati sparati?
Sui giornali leggiamo una narrazione possibile, ed è tutto. Il resto lo sappiamo solo noi che abbiamo atteso, noi che abbiamo visto, noi che abbiamo sentito, noi che abbiamo negoziato, noi che abbiamo deciso. O solo loro: loro che hanno atteso, visto, sentito, negoziato e deciso. Ci sono comunità e codici di guerra. E c’è l’onore,

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