mi fermo di fronte a l’odore del pane, di notte, ma non ho fame; lo compro per domani.
avete del pane caldo? – chiedo a quello che sembra un bangalese. è vestito di bianco, lavorerà anche lui qui.
no, chiuso – mi risponde.
come chiuso, è aperto. la serranda è chiusa e va bene, ma la porta è aperta e dentro state facendo il pane, si sente l’odore.
mi avvicino alla serranda, dentro è giorno e sul pavimento ci sono ceste di pane che fumano.
scusi, posso avere del pane caldo?
e dentro, il fornaio sveglio da poco mi sorride e prende una busta e sceglie un pane dalla cesta e mi chiede se va bene questo: lo solleva e me lo indica.
io dico di sì. lui imbusta e si fa verso di me.
ho nella mano delle monete che ci compro un chilo di pane, ma il fornaio mi dice che va bene così. e mi sorride di nuovo allungandomi tra le aperture della serranda la busta col mio pane dentro.
e gli sorrido anche io.
e ringrazio levandomi il cappello.
e riprendo a camminare verso casa distratto dai soliti tre minuti iniziali di voce sua: oh, soccombente: la conclusione finale è che sono costretto a perdonarti. e nella lettera a lord alfred douglas s’inabissa vestito di umiltà:
faresti bene ad abbassarti nella polvere e impararla con me.
abbandonarsi al vedersi pietoso.
ira terribile e impotenza;
amarezza e disprezzo;
angoscia che singhiozzava apertamente,
tormento che non trovava voce,
pena che rimaneva muta.
oh, de profundis di wilde che lavi così bene specie di pomeriggio. col sole.
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