Orvieto

ce n’è una di ragnatela che vedo quando mi guardo intorno per cercare una tazzina, parte dalla persiana la ragnatela e si posa sul davanzale interno e poi su un oggetto a forma di parallelepipedo, in legno, non so cosa sia e dall’alto vedo che ha delle giunture in acciaio, si può aprire, mi riempio di ragnatele, lo apro, ragnatele anche dentro, non so a cosa possa servire, ragnatele ovunque, devo dire agli altri che dobbiamo trovare il ragno che ha tessuto questo regno di fili, dedicargli un angolo della casa – solo quello però – e illuminargli la ragnatela con un faretto. la ragnatela arriva fino alla sedia – quella illuminata dal faretto non ci dovrebbe arrivare fino alla sedia –, è un capolavoro di pazienza, è l’odore che ho sentito di mattina appena aperta la finestra, quell’odore di giallo che da bambino era il mio colore preferito, quell’odore di scuola e asilo, di suore e maestre, di grembiule bianco e poi azzurro e poi blu, quel treno che avrebbbe dovuto girare in tondo e tutti i bambini dentro, quel treno con le rotaie inchiodate, e c’erano i giorni che ci provavamo lo stesso a farlo partire, anche in quattro cinque sei a spingere per schiodare le rotaie, poi mi allontanavo verso quelle foglie arricciate per terra, gialle e marroni, cadute, quegli angoli bui inginocchiati a catturare ragni, in una scatoletta trasparente del formaggino, quello tondo, che la suora ci faceva mangiare verso le dieci forse, prima di pranzo sicuramente, prima di farci stare seduti a ricordare le foglie tirate in aria, raccoglierle in mucchio ginocchia sul grambiule ché a settembre i calzoncini ancora si possono mettere, farne un mucchio giallo di queste foglie e tirarle in aria, uno scherzo, o il desiderio di imitare il sole, avere gli occhi delle treccine inguaiate dalla mancanza della madre, forse era il primo giorno per lei, e quelle foglie gialle, in alto, ad aprirsi e ricadere come fontana di sole, ecco: erano per lei.

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