Nel faticoso annullarsi – questo farsi chiudere dal mediato – v’è di che interrogarsi quando l’informazione illusa degli eventi soffia e arrossa piombo fuso nella rappresentazione di una striscia di carne ferita, seduta: in questo troppo dirsi la traduzione del fatto è di per sé un tradimento, e non secondo la larga significazione del vocabolo quanto per il differimento temporale: tradurre è (nel frattempo) tradire, condurre e consegnare l’atto è (nel tempo) sostituire l’oggetto col soggetto: un’azione dove l’atto diviene fatto.
E non ti consola la morte della parola quando è scritta, questa rigida assunzione di rappresentazione venduta per realtà, questo autoritario dirsi – o farsi dire – vergato: il medium è il messaggio direbbe McLuhan, ma il medium è anche un libro, un articolo, la parola stessa – morta o viva che sia. E non ti consola la solitudine, nessuno che soccorra la tua scelta, nessuno partecipe dell’agonia, nessuno che sciugi il bagnato: è una scelta la tua risposta, è una gran bella compagnia direbbe Carmelo Bene nel “Macbeth o il tramonto della solitudine” – ultimo sussulto dell’apparizione mariana: «Quanta gente s’illude che, troncati i rapporti mondani, è bella e apparecchiata fuor della ressa umana, a ciascun eletto la tavola invitante dei digiuni. L’eremita, per esempio, fuori dal mondo chiacchierato, è solo? E la fede, il rancore, o l’amor frainteso di Dio, l’ambizioncella della scalata al cielo, la guadagnata misoginia ecc., sì, questi equivoci del suo malessere-soggetto, dove sono finiti? Sono là, dentro il bagaglio suo mentale che s’è portato dietro. Sono dentro di lui. Lo sono.» E non consola nemmen quel cantar li versi d’Alligheri sulla torre pei feriti tutti: «V’era (v’è) – dice CB – dunque, un apparir della voce che sempre si verifica se conferisci c o n, se parli a.» Ma questa voce – diresti tu – apparir non vuole.
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