Intanto passo in rassegna chi mi circonda: mia madre, mia sorella, mio padre, Mario, Gottardo, Dodo. E poi Ciro, Giaime, Germano. Succhio dalle esperienze altrui convinto che queste non possano condizionare la mia scelta. Non voglio mettermi ogni giorno la cravatta, baciare sulla fronte una moglie che ancora dorme, stringere mani sudaticce, andare nel mio studio da ingegnere e firmare anonimi progetti di distinti speculatori. Mi fa paura la vita di Giaime, ogni attimo della sua vita, con la madre malata, una separazione in corso, l’assicurazione della macchina scaduta, le promesse degli editori e l’ennesimo romanzo nel cassetto. E non voglio nemmeno sedermi in un ufficio a sbrigare pratiche lunghissime, magari concluderle, e accorgermi che il dirigente è cambiato e quella pratica è solo carta straccia: il nuovo dirigente ha progetti ambiziosi per tutti noi, come l’altro del resto, e l’altro ancora. Ciro lavora in uno di questi uffici, è un precario fortunato, di quelli che hanno stretto la mano giusta al momento giusto e si ritrovano per sei mesi l’anno a scaldare la sedia in qualche ufficio ministeriale. Mica male se consideri che l’esercito dei laureati tra i trenta e i trentacinque si divide fra call-center commerciali, promozioni, vendite di telefoni e quant’altro. Oggi se vuoi vendere hai solo l’imbarazzo della scelta, te li tirano dietro i lavori dove devi vendere. Non importa cosa vendi e come lo fai, ciò che importa è la firma in basso sul contratto, una qui grazie, una qui e un’altra qui, grazie, questa è l’ultima.
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