Delle compulsioni e altri tic: due pagine di resoconto

A volte mi sento uno che non sa ricevere, e quest’ultima frase rimbalza nella mia testa e le parole di Luisanna sovrastano il chiacchiericcio del baretto in cui beviamo una birra: per non sentirsi soli bisogna saper ricevere. Cazzate penso, e faccio quello che avrei voluto fare quel giorno, alzarmi e scappare. Torno in cucina indispettito, mi guardo intorno, apro il frigo e lo richiudo, vado in camera, mi è rimasta solo una sigaretta, esco a comprarle.
Per non sentirsi soli bisogna saper ricevere. Devo ammettere che questa frase ha il suo fascino. Per non sentirsi soli bisogna saper ricevere. Prima me l’ha scritta in un quadernetto che mi ero portato appresso e poi me l’ha ripetuta guardandomi fisso negli occhi, la bottiglia di birra la teneva a mezz’aria. Stavamo facendo un gioco, io e Luisanna, uno dei nostri soliti giochi cervellotici. In questo dovevamo rispondere alle domande impossibili, una domanda a testa, e l’altro doveva scrivere la risposta nel quadernetto. Io preferisco scrivere, ho sempre preferito scrivere, non riesco a vincere l’imbarazzo della verità, leggerla è molto più agevole; e poi non reggo lo sguardo mentre mi dicono la verità, e non lo reggo nemmeno quando la verità sono costretto a dirla io. Quindi abbiamo giocato con queste domande impossibili e Luisanna gli ha dato anche un titolo: Delle compulsioni e altri tic. Le risposte alle domande impossibili sono uscite da quel quadernetto e si fanno largo nei miei giorni, vorrei guardarle con meno imbarazzo, in qualche maniera accettarle.
Siamo sempre lì, io e Luisanna, nel baretto sulla spiaggia che ci parliamo addosso davanti a una birra; e quando le parole non escono, il silenzio è un accompagnamento d’archi, non è di quei silenzi che opprimono. E quando riprende a parlare la musica è nella sua voce calma, piena d’amore, un amore che non voglio ma che arriva, lo sento bussare ma non riesco ad aprire.
E poi al telefono, quando abbiamo parlato del mio libretto, l’ultima volta che l’ho sentita.
«Devi smetterla di fissare tutte le emozioni sulla carta così che diventino parole lontane o finzione letteraria. Devi smetterla. Ti prendi gioco delle tue stesse emozioni, le sfiguri, e fissandole sulla carta le uccidi.»
Così ho ucciso Monia, fissandola su di un foglio. È andata proprio così. Ma quell’emozione mica potevo maneggiarla? Avvicinarsi all’emozione significa prendere coscienza di un sentimento, e il sentimento conduce l’uomo alla pazzia. Vorrei dirtele queste cose, cara Luisanna, parlarti di Monia e sapere da te cosa mi è preso. Ci sono luoghi in cui ho terrore di addentrarmi e tu sembra che ci sei da una vita, e mi prendi la mano e me li fai conoscere. Sono i miei quei luoghi ma a me risultano sconosciuti, e tu invece me li descrivi, ti siedi, accavalli le gambe, parli… Mi sembra di essere passato sotto una enorme lente di ingrandimento e tu sopra che hai guardato e annotato tutto. Hai fatto una radiografia del mio stare al mondo, studiato i miei gesti, registrato i miei suoni. Hai scoperto i vicoli più (nascosti) della mia mente, scritto sul mio corpo tutte le parole che poteva contenere. Forse mi ha fatto paura questa tua maniacale lucidità. O magari l’ossessiva ricerca della verità e di tutte quelle certezze che obbligano a una scelta. Forse preferivo vivere senza conoscermi. Forse. E mentre tornavo a verso casa col pacchetto di Camel in tasca, non pensavo più alla serata di Villasimius, ma a tutti gli angoli bui che dovrei illuminare; e fra questi il desiderio di solitudine, che potrebbe essere anche bisogno, ma che si trasforma in una maschera che indosso senza conoscerne i contorni.
E di nuovo Luisanna, ancora con la birra a mezz’aria, che mi fa scrivere tutte le risposte che non avrei mai voluto leggere.
«Ti piace saperti solo perché è suggestivo, letterario, facile. Perché chi è solo veramente ha paura perfino di pensarlo. Ma forse un po’ lo sei… È più difficile ricevere che dare. Credo che per non essere soli bisogna saper ricevere.»
«E quindi io non saprei ricevere?»
Non risponde subito, e quando lo fa rimarca il fatto che sia più facile dare che ricevere, e mi dice che io sono molto generoso e pure lei si sente generosa.
«Dare o darsi possono scattare in automatico, quasi d’istinto. Ricevere significa accettare, pensare, capire quella mano tesa. E a volte quella mano non la vogliamo capire, non abbiamo tempo per fermarci perché magari in quella mano c’è qualcosa che fa luce e noi invece preferiamo il buio.»
Questa donna m’incasina, mi prende al cervello, me lo violenta, ne fa quello che vuole. È sempre stato così, dal primo incontro. Nel buio della mia stanza rivedevo quella birra sempre a mezz’aria e l’immagine di lei concentrata su quello che stava dicendo.
Ieri mi sono addormentato con questi pensieri, e non è stato facile prendere sonno. Quando la testa mi frulla pare che frulli tutto il corpo e mi giro e rigiro continuamente nel letto, il piede inizia a muoversi velocissimo, il cuore aumenta i battiti e non riesco ad arginare il flusso, mi perdo senza perdermi completamente.

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